CUORE MAZZA CHIODATA

Sento un vuoto in mezzo al petto. Come vorrei essere un farneticatore metaforico, anche se con una frase simile, sento un vuoto in mezzo al petto, risulterei un po’ banale. Già visto. Già sentito. Invece no. Niente metafore. Si tratta di una sensazione fisica. Un maledetto male. Come se mi fosse stato tolto qualcosa. La piccola ed esile membrana che divide sonno e veglia si è fusa. Sono appannato e lucido allo stesso momento. Inizio a provare un po’ di dolore. Il mio corpo si ridesta dal torpore, nuota nel caos di sensazioni verso i canali che lo congiungono alla mente. Il fastidio aumenta. Mi passo la mano sul petto e sento la pelle cambiare conformazione. È umidiccia, lungo una certa linea. Si sgretola e io provo dolore. Di nuovo dolore. Mentre infilo le mie dita dentro la smagliatura in mezzo al petto, e lo faccio con un certo senso dell’ironia tanto non mi sembra vero, riesco sommariamente a ricordare dove mi trovo. In vacanza. In Spagna. A Madrid. Solo ieri, mi sembra ieri si, guidavo il camper fra i paesaggi torridi del sud, fra Siviglia e Cordoba. Già, ora ricordo. Sono stato a Siviglia. Cordoba no perché non avremmo fatto in tempo. Così dicevano gli altri. Ora ricordo si. Inizio a ricordare. Abbiamo parcheggiato il camper a Madrid, in un quartiere residenziale dietro al museo del Prado. Calle de Alberto Bosh era il nome della via. I palazzi eleganti e lunghi. Un po’ vecchi ma dignitosi. Non una tag, non un graffito, niente locali marocchini o luridi paki in giro per le strade. Nessuna traccia evidente di delinquenza. Ora, potrei mettermi a pensare alle differenze fra apparenza e realtà ma non ne ho voglia. Continuo ad accarezzare con le dita la smagliatura in mezzo al petto. Il dolore aumenta come una costante moltiplicata per il tempo. Potrei misurare matematicamente il momento in cui impazzirò.

Il violento avrebbe voluto lasciare il camper in un parcheggio sotterraneo. Io mi ero opposto perché a dormire là sotto mi sarei sentito soffocare dall’inquinamento. Per fortuna Marin Faliero ci aveva fatto notare che, in ogni modo, non ci saremmo passati. Il camper era pur sempre alto tre metri e dieci. Rhiot dormiva. Non prese parte alla decisione. Decidemmo, dopo aver sbocciato il cofano di un auto con il porta-biciclette, di lasciare il camper parcheggiato tutta la notte e tutto il giorno successivo in Calle de Alberto Bosh. Credo che per i ladri sia stato facile attendere tutta la mattina il momento della nostra dipartita e poi, senza neanche troppa adrenalina, forzare la serratura. Una volta dentro avranno selezionato con calma gli oggetti di valore, macchine fotografiche cellulari navigatori satellitari occhiali da vista vibratori in bronzo e soldi. Dopodichè si saranno pure concessi l’eleganza di lasciarci tutti i documenti e le tessere. Così da rendere non necessaria la denuncia. Poi, essendo in due perché queste cose si fanno sempre in due, avranno scelto le due valige più belle, le avranno riempite con tutto il maltolto e saranno usciti. Ovviamente avranno scelto i trolley fucsia di me e Rhiot, visto che il Violento trasporta tutta la sua roba in sportine di plastica e i bauletti settecenteschi di Marin Faliero non sono proprio così facili da trasportare. Una volta usciti dal camper si saranno confusi con gli altri turisti. Noi, qualche ora dopo, ci saremmo guardati negli occhi increduli e avremmo imprecato contro Dio in modo farsesco.

Ma non è andata così. Io, che diffido sempre dei marozingari, ho avuto una visione. Ho visto appunto il futuro. Ho visto i ladri gitani, mi piace pensare che a rubare siano sempre loro, entrare dalla porta e ridere alle nostre spalle. Ridere alle nostre spalle. Il fatto che ridessero alle mie spalle è sicuramente l’aspetto peggiore dell’epifania. Dimenticavo di dire che io vedo spesso il futuro. Lo mescolo al passato, lo mescolo ai sogni. I dottori danno un nome a questo dono. Ma è un nome da malattia che non mi piace. Anche ora, ora che sento aumentare questo squarcio nel petto, non riesco a capire a che tempo appartenga il dolore che provo. Ma è chiaro che ciò non ha nessuna importanza. Ciò che ha importanza è che ieri ho deciso di cambiare la storia della mia giornata, della mia vacanza. E l’ho fatto sospinto dall’odio si, solo dall’odio. Sono rimasto in camper. Da solo. Mentre gli altri visitavano il museo del Prado, che comunque nell’altra versione della realtà avevo apprezzato poco, io sono restato seduto in silenzio sul sedile attiguo alla porta. Eccomi sono qui. Sono qui appoggiato. Ho una birra in mano, visto che bevo solo la birra e il cuba libre come una certa ragazza elettrica. Cerco di modulare il respiro ai sussulti dell’aria. Abituo le pupille al buio, come un killer. La tengo fra le mani e ne accarezzo la brama di giustizia. La sfioro delicatamente così come sfioro la ferita in mezzo al petto. I due momenti si sovrappongono. Per fortuna l’astio rimette un po’ d’ordine fra le mie priorità. Allora la appoggio, per non lasciarmi travolgere dall’odiante entusiasmo. Ansimo a bocca spalancata come una fiera in attesa del sangue quotidiano. Mi rilasso un attimo senza abbandonare mai la tensione che si sta creando in me. Lei è il mio braccio. Il braccio della vendetta, non della legge, della vendetta. I poveri devono rimanere poveri. I diseredati diseredati. Non mi frega del terzo modo, della denutrizione, dello sfruttamento intensivo che attuiamo noi occidentali. Non mi frega dei marozingari e dei cinegri. Che abbiano pure i loro buoni motivi per rubare nei camper dei turisti. Non me ne frega un dannato niente. E anche se fossero spagnoli o italiani me ne fregherebbe ancora meno. Anche loro potrebbero lavorare. Tutti potrebbero lavorare. Nessuno dovrebbe rubare. Lei è d’accordo con me. Le leggi sono relative. Sono solo convenzioni. Ma una volta che sono state decise devono essere rispettate. Fino al momento in cui qualche rivoluzione o qualche referendum le cambia. Non rubare è una legge. Ma la gente ruba. La mia etica fucsia non può condividere. Solo lei mi capisce. Lei è d’accordo con me. Lo è sempre. Lei fa in modo che tutti, prima o poi, siano d’accordo con me. Sono pazzo, certo.

Boom. Quando il primo ladro entra sollevo la mazza chiodata. Il primo colpo è dall’alto verso il basso, i chiodi si conficcano fin quasi a metà del cranio. Anche un pezzo dell’anima centrale mi sembra che entri. Mi pare all’altezza dei capelli. Faccio un po’ fatica ad estrarla, ma l’odio mi soccorre. Tutti i pezzettini di cervello vengono su, tirati dalla mazza, e schizzano sulle pareti del camper. Dovremo pagare una certa penale ai noleggiatori, penso. Quest’idea aumenta la rabbia. Boom. Il secondo colpo è da destra verso sinistra. Sul petto. Il ladro sussulta all’indietro ma per sua sfortuna non riesce a passare dalla porta. Non ha il privilegio di cadere in strada e resta lì, mezzo vivo alla mia mercè. Ridacchio in modo stridulo. E poi ancora. Boom. Questo tonfo è più sordo, è attutito dal sangue. Mi bagno tutto del suo sudicio liquido rossastro. È quasi nero. È tutto cosparso di questo liquido nero. Lo guardo fisso in ciò che resta dei suoi occhi. Il destro c’è quasi tutto ma il sinistro è stato meno fortunato con l’inclinazione dei chiodi. L’indulto non ti salverà, escremento. Nessun tribunale decadente farà in modo che tu abbia di nuovo la possibilità di rubare. Nella mia mazza chiodata non c’è Mastella e non c’è parlamento. Carica legislativa ed esecutiva si fondono nella ruggine. Ho ragione. So di aver ragione. E allora continuo. Boom. Un ultimo colpo dritto sul naso. Niente televisione o libri in questa cella, gli urlo. Niente permessi premio stronzo. Si accascia al suolo, tumefacendosi all’istante. Il suo compare è fuggito. Ho vinto.

Un momento. Mi stavo crogiolando troppo nella parte del supereroe vendicatore. Mi ero quasi scordato del dolore. Ecco che ritorna, ora che ci penso. Un effetto placebo al contrario. Il fastidio mi avvolge. Ed è più forte di prima, viene da più lontano. Purtroppo mi sto riprendendo, e con le facoltà aumentano le sofferenze. Effettivamente è un osservazione che vale per parecchi ambiti. Per la prima volta da qualche minuto mi rendo conto che il mio stato di dormiveglia potrebbe essere provocato da una droga. Un’anestesia. Un sonnifero molto potente piuttosto. Che ne so. Ho paura. Riconosco che prima o poi potrei anche morirci. Passato e futuro si fondono, come nella più poetica delle fantasie. Mischio ciò che è avvenuto con ciò che avrei desiderato che avvenisse. Sono confuso. Accarezzo la pelle sgretolata, come palpassi la mazza chiodata. Decido finalmente che l’unica alternativa rimastami è aprire gli occhi. Lo faccio senza indugiare. Non prima di aver tastato un ultima volta la ferita grondante in mezzo al mio petto. Mi accorgo subito che mi trovo all’aria aperta. Più precisamente in mezzo ad una strada. Guardo verso destra. Calle de Alberto Bosh. Avrei dovuto immaginarlo. Sono sdraiato. Lo stupore aumenta quando mi sembra, tuttosommato, di essere abbastanza comodo. Allora mi giro e osservo il materasso che mi sorregge. Siamo solo io e lui, in mezzo alla strada. Che ne è del camper? No. Non siamo soli. Alla mia sinistra Rhiot siede in silenzio sul marciapiede. Mi accorgo che è lui soltanto per gli occhiali neri e i capelli ricci. È senza bocca. Tutto ciò che aveva fra il naso e il mento. Adesso, fra il naso e il mento, non c’è nulla. Solo qualche corda vocale si attorciglia goffamente su se stessa. è un immagine raccapricciante. Penso subito si tratti di un operazione comunale di igiene estetica. Del resto con quei denti sporgenti. Nemmeno anni di apparecchi e logopedia sono bastati. Certo che la soluzione scelta è un po’ drastica. Non riesco a riordinare i tasselli. Svegliandomi, e allargandosi progressivamente il mio campo visivo, posso finalmente scorgere il Violento. È morto. In queste losche faccende qualcuno deve sempre morire. Stavolta è toccato a lui. Il grande prevaricatore. Colui che prende il bis quando ancora ha il piatto pieno. Qualcosa non deve aver funzionato nel suo corpo. È buttato sul marciapiede a pancia all’aria. Con un grosso buco nello stomaco, all’altezza del fegato. Mi pare di udire un rumore, una scoreggia forse, venire dalla sua parte. Passato e presente che si mescolano nella morte. Dolore lancinante che aumenta. Rasento la pazzia. No, non si tratta di un operazione estetica. È qualcosa di peggio. La ferita nel mio petto, invece che rimarginarsi, si allarga. Così guardo verso l’alto. Cercando il conforto di Dio. Vedo invece, appeso al lampione, il tronco di Marin Faliero. È senza gambe e senza braccia. Gli mancano anche le pupille e il naso. Solo la barba conserva il ricordo della sua presunta dignità. La pancetta non abbronzata è l’unica reliquia del suo portamento elegante. Ora capisco, capisco tutto. Il mio campo visivo diviene totale, travalica i confini del tempo. Il camper non c’è. Questo è evidente. È stato rubato. Ci hanno sorpresi nel sonno. Nel sonno ingannati. Ora capisco. Ma non è tutto. Non solo il camper e i soldi. Il dolore è arrivato al culmine, dannazione. Non sono certo della mia idea. C’è solo un gesto che può confermare i miei sospetti. Decido di compierlo. Stringo le dita e mi accorgo che mi fa un po’ senso. Poi traggo un respiro profondo mi faccio forza, infilo la mano nella ferita. Dentro non sento nulla. È come pensavo. Ladri di organi.

Non credo se ne facciano molto del mio cuore, in ogni caso. Riacquisto, morendo, il dono del tempo. Il dolore, d’un tratto, è passato. Sveglio Rhiot e ci dirigiamo verso un Burger King. In fondo alla strada di fronte al museo ricordo ce n’era uno. Menù paradiso. Viva la globalizzazione. Il meglio, per me, sono le patatine croccanti. Mi si riempie la bocca di saliva se penso al piacere del sale che mi si incastona nella lingua. Credo che alla fine porteremo un sacchetto anche a Marin Faliero e poi, immagino, dovremo imboccarlo. Rhiot è contento, dice che il fritto lo sveglia. Anche se non so come farà a masticare.


el senor cheat from la espana